Ieri è stata una giornata confusa. Tutto il giorno qui a pensare a quell’assurda richiesta che mi avevano fatto lunedì:
A. “devi progettare una golden and silver mountain”
H. “una golden che?”
A: “Sì, un monumento, che forse non è solo un monumento. Aspetta che chiedo al capo.”
…
A: “Sì deve essere un monumento ma puoi anche andarci sopra.”
H: “Ah ecco…”
…
H: “Ma perchè golden and silver?”
A: “Perchè deve rappresentare la ricchezza”
H: “Vuoi dire che deve essere un monumento alla ricchezza?”
A. “Sì, qui da noi si usa…”
Faccio qualche brutto schizzo, butto via tutto. Mi chiedo che senso abbia progettare qualcosa di cui non comprendi il significato, che non arrivi a capire.
Scrivo un post sconclusionato qui sul blog per riordinare un po’ le idee.
Non lo pubblico.
Stamattina mi alzo di malumore pensando a ‘sta maledetta montagna dorata e a chi si è fatto venire questa splendida idea, poi arrivo a un accordo con la mia coscienza. Non sempre si può fare quello che si vuole come lo si vuole, per cui fai quello che ti hanno chiesto, magari mettici un po’ del tuo, e pace.
E dire che qui in studio il mio ruolo in questi ultimi mesi si è definito: mentre all’inizio DOVEVO dimostrare qualcosa, nonostante le difficoltà con la lingua e tutto il resto, ora sembra mi sia creato una nicchia qui dentro.
Tutti i progetti a scala urbana, tutti i progetti paesaggistici, passano prima da me.
Detta così è una cosa molto bella, un punto di arrivo per chi come me si occupa di progetti a grande scala.
Eppure non è così…
Non riesco a spiegare esattamente per quale motivo (trovo sempre la scusa della mancanza di tempo, in realtà devo ancora chiarirmi le idee su molte cose), ma qui chi crea viene considerato alla stregua di un operaio, né più né meno di un caddista.
Mi spiego meglio: se il processo creativo non è supportato da un’analisi del territorio su cui si va ad intervenire, nel mio caso ecologica, sociale, percettiva, progettare sulla base di una mappa stampata su A4 e corredata da schede sintetiche vuol dire relegare il progetto a un semplice segno, come scrivevo un paio di settimane fa.
Quando vengono qui mi chiedono disegni, non progetti. E’ come se mi usassero come un juke-box delle idee: idee “buone, originali, possibilmente entro stasera grazie. Poi magari alle cose serie tipo stime dei costi e rapporto con i fornitori ci pensiamo noi”.
Quando posso cerco di progettare come progetterei in Italia: visito i siti, osservo, traggo le mie conclusioni, progetto. “Loro” apprezzano, ma poi il giorno dopo si ricomincia daccapo.
Il culmine l’hanno raggiunto qualche giorno fa, quando mi hanno chiesto di progettare un roof garden in 10 minuti. Altri 50 minuti per fare una presentazione in photoshop. In un’ora avevano il loro progetto: due linee curve, un po’ di tavolini una pergola, qualche pianta. Contenti loro…
Noi tutti sappiamo che un progetto non è questione di “fantasia”: un progetto viene generato dal territorio circostante, dalla cultura locale, dalle esigenze delle persone.
E’ per questo a mio avviso che un architetto non può essere considerato un artista.
Questo post è più sconclusionato dell’altro ma pazienza. Il mio lavoro non è scrivere trattati di architettura.
Il mio lavoro è tracciare delle bellissime linee colorate, nel più breve tempo possibile…
4 risposte a Idee da juke box