Petra è incredibile. Riparata, quasi nascosta nel cuore delle montagne della Giordania meridionale, è avvolta dal mistero che avvolge le “cose” di una meraviglia rara e quasi “sovrumana“.
(L’architettessa mentre percorre il Siq)
(Il Siq, ancora)
La sua bellezza risiede in qualcosa che è al tempo stesso concreto e impalpabile, indescrivibile. Trovarsi davanti al Tesoro alle sette di mattina dopo aver percorso il Siq è una delle cose per cui vale la pena di vivere.
E non è solo il potere dell’architettura: è l’ “unicum” di Petra che conquista, lo stretto connubio, la “simbiosi” di architettura e ambiente circostante. E’ l’emergere delle architetture dalle pareti rocciose, quasi come “prigioni” di Michelangelo.
E’ il colore incredibile delle pietre, che virano dal bianco al porpora all’arancio, che sono materiale e ornamento al contempo dell’architettura. Abbiamo passato a Petra due giorni, scegliendo itinerari meno turistici e un piuttosto impegnativi, un sali scendi sali scendi continuo. Ma i panorami che abbiamo visto sono assolutamente unici. Testimoni a mio avviso di un tempo in cui l’uomo sapeva convivere con l’ambiente che lo circondava, conoscerlo e farselo alleato, anzichè piegarlo e provocarlo. E queste architetture che escono dalle rocce ne sono un emblema tra i più alti raggiunti dalla storia umana.
(Il Tesoro alle sei di pomeriggio. L’esserino seduto sono io.)
(Il Monastero, che il realta’ di monastico non ha mai avuto nulla)
Ancora storditi dalle meraviglie di Petra, ci siamo spinti ancora più a sud, nel deserto del Wadi Rum, dove abbiamo passato un giorno e mezzo, pernottando nell’accampamento di M’zied, beduino “dinamico” con una trama tentacolare di figli. Il Wadi Rum, uno dei più spettacolari ambienti naturali del Medio Oriente, è un “compromesso” tra il deserto dell’immaginario comune (sabbia e dune) e il deserto all’americana, con picchi rocciosi scolpiti e ben definiti che emergono all’improvviso nelle distese di sabbia.
(Dall’alto di uno dei montarozzi su cui ci eravamo arrampicati)
(L’architettessa mentre scende “di deretano” da un altro montarozzo)
Ci siamo arrampicati ovunque (ho scoperto un connaturato talento per l’hiking che ignoravo), abbiamo scalato dune, camminato quasi in verticale per raggiungere la sommità di un ponte naturale tra due montarozzi, abbiamo visto tante di quelle stelle quella notte che non pensavo nemmeno che esistessero. M’zied ci ha diviso in gruppi e ci ha affidati alle amorevoli cure dei pargoli, che guidavano le jeep con una disinvoltura a tratti inquietante, catapultandosi ultrasonici tra un sito e l’altro. Inoltre il sant’uomo ha preparato la cena tenendo premurosamente conto del mio regime alimentare, cosa che mi ha quasi commosso. Il dopo cena è un ricordo piuttosto confuso, o più probabilmente inesistente, essendo passati dalla tavola alla posizione orizzontale senza soluzione di continuità. I due giorni di Petra con sveglia alle cinque e la giornata di “free climbing” autodidatta nel deserto ci avevano ciucciato ogni linfa vitale. La gitarella nel deserto si chiude col cammello, in sella al quale ho sperimentato due delle ore più lunghe della mia vita.
(L’architettessa, che ancora rideva, sul cammello)
La prima mezz’ora è stata molto gradevole: finalmente il deserto visto ad una velocità umana, da un’altezza insolita e cullata da un piacevole sensazione di galleggiamento sinuoso. La seguente ora e mezzo ha piano piano assunto i contorni dell’incubo: la luce mi tormentava (e mi spaventava, memore della lesione alla cornea dello scorso agosto); il galleggiamento mi si ripercuoteva dai reni su su fino allo stomaco; una specie di maniglia a forma di cilindro allungato, ancorata sulla sella dietro alla mia schiena, mi si conficcava tra le vertebre ad ogni passo ; la coperta ruvida con cui era stato sellato l’animale scavava impietosa, nonostante i pantaloni, l’ epidermide tenerella del mio deretano.
Ho portato fieramente le conseguenze dell’ultimo punto per tre settimane. Anche perchè sulle suddette aveva infierito il Mar Morto, salatissimo, su cui ci siamo letteralmente spalmati la sera stessa. Qui ce la siamo goduta come due maialini: sole, mare, venticello, piscine, succhi e frutta a volontà, fanghi naturali. Il posto ideale per lasciarsi andare al rincoglionimento più estremo e compiaciuto dopo quattro giorni da leoni. Il viaggio potrebbe finire qui, con l’Architettessa che vi saluta da bordo piscina mentre trangugia un succo di frutti misti…perchè è lì che vorrei essere rimasta, comprensibilmente.
Escludendo la scontata “sindrome costa crociere” sono tornata a lavoro energica, piena di buoni propositi (per futuri viaggi), con gli occhi e le testa pieni di cose bellissime, ricaricata e soprattutto arricchita spiritualmente, come dire…viaggiare è veramente cibo per l’anima, questo viaggio mi ha dato emozioni, spunti e suggestioni che dureranno molto e che “nutriranno il mio spirito” per moltissimo tempo. Complimenti per la pazienza dimostrata arrivando a leggere fino a quaggiù.
E anche per stasera, da Fitzjohn’s Ave, è tutto.
3 risposte a Architettesse in Giordania – Parte Seconda