Buongiorno cittini vicini e lontani, e un caloroso augurio di un luminoso 2010, ricco di sorprese!
L’architettessa è tornata all’ovile londinese nella tarda serata del 2, dopo una settimana tra le Crete e tre giorni a Innsbruck. Il ritardo mostruoso con cui vi faccio gli auguri è dovuto al fatto di essere vissuta ben 12 giorni senza internet. Un record quasi assoluto, vissuto con sorprendente scioltezza. E che mi ha permesso di raggiungere un traguardo che avrei creduto impossibile: vivere per quasi due settimane senza facebook. Il mio orticello virtuale sarà in stato di putrefazione avanzata ed i regali di Natale sotto l’alberello digitale probabilmente scaduti. Anno nuovo vita nuova, si dice: in realtà ritornare alla consolidata routine è stata quasi una coccola, ed il ritorno meno traumatico di quello che temessi. Del resto in tempi come questi avere le proprie piccole certezze conta, e non poco. In studio siamo ancora semi immersi in una situazione piuttosto “festive”, o meglio da bagordo letargico post natalizio. Anzi, il conto e il riconto (ma si dirà?) della dodicesima notte è stato lo sport preferito dei colleghi anglosassoni dell’intera giornata di oggi; la dodicesima notte dopo il Natale, in cui è tradizione smontare l’albero. A giudicare dai cadaveri di alberelli miseramente abbandonati per le strade direi che qualcuno si è saggiamente avvantaggiato. A quanto pare la civiltà con la C maiuscola non è arrivata nemmeno quassù al 100%.
Al mio rientro non ho trovato novità significative, ad eccezione della chiusura della bancarella del fioraio a South End Green, che ha lasciato un cartello piuttosto commovente (sul serio), firmandosi Mr Flowers. A Febbraio rientrerà anche la collega che era in scholarship per nove mesi; non nascondo che non faccio balzi di gioia scomposta, dato che è una delle persone più antipatiche che ho incontrato, eufemisticamente – ma del resto io vado molto poco d’accordo con gli Scorpioni. Soprattutto se sono ascendente Signorinarottermeier come lei. Ad ogni modo credo sia un buon segno, se hanno deciso di riassorbirla, significa che lavoro ce n’è.
Ma la vera novità è che la cicogna volerà da queste parti (cioè, oh…non troppo vicina alla sottoscritta, per carità) due volte, ad Aprile ed a Giugno. Il primo lieto evento riguarderà il mio collega, Alex, e consorte; il quale Alex, che di primo acchito non dimostra più di undici anni, da un paio di mesi passa le pause pranzo a leggere le recensioni di passeggini e culle da neonati. Quando mi sono congratulata della lieta novella, ha sentito la necessità di informarmi che “well, you know, my wife is 33“, con un’alzata di sopracciglia che sottintendeva qualcosa di simile a un “o adesso o mai più”. Sulla faccia mi si è dipinto un sorrisino opaco e ho deglutito a fatica. Un mese dopo è stata la volta della collega tedesca, classe 1983, che da quando è incinta ha smesso di grugnire, accenna tentativi di sorriso e la mattina saluta. In un momento di sbalorditiva comunicatività mi ha anche mostrato l’ecografia – poco importa se al momento la sottoscritta ha confuso la panza con la testa del nascituro. Quando mi ha comunicato la novella, al di là del “oh my gosh” la prima cosa che mi è uscita dalla laringe è stata “ma sei così giovane“, e lei “no no non sono giovane per avere un figlio“. Ha ragione, naturalmente. Ho esibito un sorrisino ancora più opaco e ho deglutito con sovrumana fatica. Intendiamoci, non è fuori dal mondo avere un figlio a 26 anni: lo è in Italia, se sei “libera” professionista e/o laureata. Sarà la prima gravidanza che seguo in diretta giorno dopo giorno, e non nascondo che spesso l’occhio mi casca sulla sua pancia, nel tentativo di intravedere il bump, come lo chiamano qui, lo sviluppo del pancione.
Sul fronte personale si è chiuso un anno molto intenso, di scoperte, di miglioramenti, di conquiste quotidiane e di consolidamento di piccole certezze. Un anno non particolarmente brillante dal punto di vista della salute, ma che proprio per questo mi ha consentito di conoscermi meglio, dal punto di vista prettamente fisico. E questo mi ha permesso di concentrarmi, buona parte dell’anno, a una pratica per me quasi sconosciuta, quella che in senso ampio viene definita wellbeing. Che non è solo attività fisica (quella non è mai mancata), ma è un ascoltare se stessi, almeno per come la sto vivendo io, capire cosa fa bene e cosa no. A livello mentale ma soprattutto fisico, e specificamente alimentare. Non che prima mi infilassi in bocca quello che capitava (figuriamoci, sono sempre stata abbastanza fissata); diciamo che ho imparato una serie di cose che prima ignoravo. E tutto questo senza Londra non sarebbe stato possibile. Solo qui ho trovato una tale varietà di cibi etnici, healthy e curiosi, dall’estremo oriente al sudamerica, che hanno cambiato il mio approccio alla cucina e probabilmente alla vita. Del resto sono convinta che la cucina, nella concezione, nelle filosofia e nella realizzazione sia molto simile all’architettura. C’è una struttura di base, c’è dell’inventiva, a volte c’è il genio; talvolta c’è l’uso di un materiale in modo non “ortodosso” che destabilizza la percezione ma aiuta a vedere le cose sotto una luce nuova, ad ampliare la visuale mentale; c’è il materiale tradizionale accostato al materiale inusuale, che rafforza la percezione di entrambi; c’è il particolare azzeccato, a volte il tocco di genio, che non ti saresti aspettato ma senza il quale il “prodotto” finale non sarebbe lo stesso.
E potrei andare avanti….ma dopo questo ispiratissimo parallelo, mentre continua a nevicare, da Fitzjhon’s Avenue vi saluto.
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