Daccapo

Quello che è successo è presto detto.
Sono passate due settimane, DUE, da quando sono ritornato dall’Italia.
Un italiano riesce sempre a ritagliarsi un piccolo posticino.
Ancor più, nell’iberica vita lisboeta.
Io, non potevo far altro che rioccupare il mio.
Ma c’è un classico “però”.
Da sconosciute profondità oscure, continua ad emergere ancora oggi una prolungata e silenziosa sensazione di amaro in bocca.
È un po’ come la colonna sonora di ogni giornata.
Si tratta, nello specifico, di una buona dose di magone umano.
Micidiale soprattutto a partire dalle 5 della sera.
Cioè allo scoccare del “rompete le righe” lavorativo.
Quando la mente non è più distratta e distraibile.
Da impegni, per così dire, “seri”.
Il mal di mare dura almeno fino alle 19 e 45.
L’ora in cui io e il mio coinquilino ci interroghiamo su una tra le più irrisolte questioni dell’Umanità.
«Che ce magnamo?».

Ma il tempo è come un instancabile croupier.
Quasi senza accorgersene si viene (ri)presi per mano dalle attenzioni di sempre.
Il lavoro.
L’affitto.
La spesa al Pingo Doce.
Gli amici.
L’attesa dello stipendio.
Il «che ce magnamo».
Le uscite al Bairro Alto.
Cioè il quartiere delle gozzoviglie capitoline.

Quando dalle finestre del soggiorno vedo E SENTO queste macchine giganti.
Che fanno voli radenti sui tetti delle edificazioni.
In direzione Aeroporto «da Portela».
La testa comincia a eruttare sogni a ripetizione.
L’Italia.
Nuova Iorche.
Il Brasile.

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