data stellare 30.04.2007

Niente ponte per me oggi. Quindi Anna non è da sola! Le scadenze sono vicine, i progetti da consegnare e la lotta è diventata senza quartieresenza quartiere. Ci sono dei modi di dire che incuriosiscono. Bisogna avere una certa elasticità per usarli. Altrimenti si rischiano casi come quello che mi capitò qualche anno fa

“Certo che stiamo insieme parecchio noi due ultimamente. Ne stiamo facendo un’arte!”
“Che vuol dire?”
“Dunque… sai quando si fa sempre una cosa? Che ne so, tipo andare sempre allo stesso pub! Qualcunque cosa succeda, si va a quel pub. Qualsiasi cosa si faccia, si va a quel pub. Ecco, quello può essere inteso come farne un’arte”
“Ah beh, se consideri stare con me, alla stregua di andare in un pub”

Sì, e tutti gli uomini sono Socrate… Ma andiamo avanti, non possiamo solo essere circondati da persone con l’apertura mentale di un chihuahua autistico.
Io per esempio, di imbecilli, ne avevo parecchi attorno. Specie all’epoca della tesi. Visto che questi giorni, di vostre segnalazioni, me ne arrivano pochissime, ho voglia di raccontarvi un po dell’odissea della mia tesi. Un capitolo TIPICO della mia vita, di quelli che ti ripeti “un giorno ne riderò“. E poi succede. Ne ridi. Forte. Talmente forte che le infermiere ti devono legare al letto e il dottore deve raddoppiare la dose di Tavor.
La tesi dovrebbe essere il momento di massima sintesi, il momento in cui dimostriamo COSA abbiamo imparato e COME abbiamo sperperato il denaro dei nostri augusti genitori.
Io sono arrivato alla tesi in condizioni DISASTROSE. Dopo un trascorso “interessante” a ingegneria (tutt’oggi vado sostenendo “mi è servito per capire meglio la matematica“, ma poi, vista la malaparata, lo psicanalista torna a domandarmi del mio primo giorno di scuola), avevo accumulato un pochino di ritardo, per cui, andai a chiedere la tesi in condizioni vergognose. Mi presentai allo sportello della segreteria domandando: “Ma a quanti esami dalla fine, posso chiedere la tesi?” e l’impiegato rispose “Non c’è un limite. 3, 4, 5… dipende dal buonsenso. Certo, non a 10 esami!“.
La chiesi a 11 esami dalla fine. Dopo una notte passata a studiare il piano in ogni dettaglio (l’operazione Overlord era stata pianificata con meno attenzione), e accertatomi che il modulo non chiedesse MAI ESPLICITAMENTE il numero degli esami, andai dal professore che avevo puntato (un Magheggione, per chi ricorda le classificazioni di qualche tempo fa), sicuro che fosse il MIO UOMO. Alla domanda “Quanti esami ti mancano alla fine“, lo guardai dritto negli occhi e mentii spudoratamente “5“. Inutile dire che mi dovetti fare un culo come un secchio per portare a casa 11 esami in un anno, ma ce la feci (mi erano rimasti i più piccoli, avendo finito gli scientifici e le progettazioni a tempo debito, da bimbo coscenzioso). Mi avvalsi delle tecniche più sopraffine per passare quegli esami: studiare, supplicare, far presente che ero studente lavoratore. Arrivai al punto di dichiarare con una risata da generale Napoleonico alle porte di Vienna, al momento di mettermi seduto “questo è il mio ultimo esame” per ben 7 volte su 11. Nel frattempo la mia mente volava nel mondo della tesi, immaginando, volando, creando, disegnando. L’oggetto del desiderio? I mercati generali di via ostiense. Affetto, come direbbe il mio vicino Andrea da Bolzano, dal morbo del riuso (non mi piace progettare ex novo: mi piace prendere ciò che è distrutto e riutilizzarlo, convertirlo. Ecco perchè il mio piano di studi aveva un piede nella progettazione e uno nel restauro. Col risultato, direbbe mio padre, di non aver capito una mazza dell’uno E dell’altro. Ma voi non siete mio padre… vero? Vi prego, rispondete di “sì” senza aggiungere altro… grazie), affetto da questo morbo, dicevo, avevo contattato un caro amico che con la macchina fotografica faceva il bello e il cattivo tempo e avevo deciso di entrare nei mercati per fotografare il luogo del delitto. Ovviamente gli sbarramenti burocratici erano immensi, ma non mi scoraggiai. Con la preparazione fisica di un ninja, con le movenze delicate di un gatto e la predisposizione al reato di arsenio lupin, penetrai nel complesso, col più sofisticato degli stratagemmi: dal portone principale, durante la pausa caffè dei vigili al gabbiotto (che notoriamente dura un paio d’ore). Un volta dentro, approfittando dell’incuria generale, iniziammo a girare fotografando QUALUNQUE cosa. Ci arrampicammo, scavalcammo, passammo attraverso cancelli chiusi da lente catene. E ci trovammo… a hollywood! C’era in corso l’installazione di una scenografia. Non capimmo, ma pensammo:
1. sarà la solita fiction da 4 soldi, tipo: carabbbigneri, pulotti o qualca altra zozzata nostrana
2. con la macchina fotografica, l’aria scocciata delle checche isteriche e un po di pezzi di carta tra le mani, ci confonderemo facilmente con i lavoratori locali.
E così fu. Chi ha fatto un tesi di questo genere, mi capisce, capisce che vuol dire entrare in quelle strutture abbandonate, vedere gli infissi semiaperti, il raggio di luce che illumina il pavimento polveroso, sentire l’eco dei propri passi in quel tempo che voi avete appena riscoperto. Così mi lasciai rapire dal rumore degli scatti della macchina fotografica e dal posto meraviglioso. Al momento di uscire, guardai il portale che da su via ostiense e dissi al mio amicofacciamo due foto all’ingresso anche dall’interno“. Una da lontano. Mezza distanza. Da sotto. Al momento di questo ultimo scatto, un vigile esce dal gabbiotto (distante pochi passi) ci avvicina con la caratteristica gentilezza romana
“DICA”
“Sì?”
“Non si può stare qui”
Lancio uno sguardo a Andrea a dire: ci penso io
“Ah sa, volevo fare qualche foto”
“E perchè?”
“Sa, per una tesi di laurea”
“Eh ma bisogna chiedere i permessi”
“Ah, sul serio?”
“Eh sì eh!”
“Ah, ok. La ringrazio. Allora Andrea andiamo, che non possiamo rimanere”
E uscimmo.
Avevamo fatto 72 foto.
Il bottino fu generoso. Meno il conto del fotografo per lo sviluppo. Ma le 72 pose erano eccellenti.
Percompletare il quadro mi occorreva una pianta del posto. Il concorso si era svolto da pochissimo, così fu facile accedere a un
cd con i dati del complesso.
Piante in pdf, che grazie a illustrator, furono convertire con facilità imbarazzante in dxf. Et voilà: avevo il rilievo a CAD dell’ante operam.
Siamo a buon punto.
Ora tocca solo far presente al professore che sono un suo laureando.
Chiudo per oggi ragazzuoli: il lavoro mi chiama. Ma non temete: questo delirante racconto tornerà. Oh, se tornerà! MHUWAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH (respiro) MHUWAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH (puoi chiamare al ristorante e avvertire che arrivo un po più tardi? Grazie) MHUWAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH

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