c’è una cosa in cui gli inglesi sono nettamente superiori agli italiani….voglio dire, a parte l’esattezza delle previsioni meteorologiche, il giardinaggio e l’affidabilità dei mezzi di trasporto (e magari anche si, la scarsa evasione fiscale ed il rispetto della legge…ma non ci infognamo nella retorica…): i charity shops. non si può dire di essere vissuti a londra se almeno una volta non si è entrati e non si è indugiato in un charity shop….e da lì alla dipendenza assoluta il passo è breve. provare per credere. charity-chic, questo il termine che è stato coniato nemmeno tanti anni fa. gli inglesi, di entrambi i sessi, adorano mixare con disinvoltura il nuovo con il vintage, o meglio, con il second hand: la nuova moda, che di fatto non è una moda, è la customization, la personalizzazione del proprio stile; e l’eleganza un po’ trasandata è tipica british, se ci pensate, casuale o studiatissima che sia. (la seconda che ho detto).
si conta che londra abbia almeno 500 charity shops, che vendono a prezzi stracciati oggetti donati dai proprietari, devolvendo gli incassi in beneficenza. Londra pullula di regali etici e di prodotti fair trade, dal thè alla sapone per i piatti…e il charity è la tappa obbligata per chi cerca il bestseller nuovo a 99p o la borsina glam; ma anche per l’intellighenzia dei quartieri posh, entusiasta, evidentemente, all’idea di convertire in un certo modo il consumismo in opere benefiche. Oxfam, cancer research, marie curie, scope,save the children, help the aged sono solo alcuni nomi; negozi che pullulano a west hampstead e kentish town dove abito e lavoro (e quando dico pullulano intendo letteralmente cinque negozi in 100 metri), ma (e con prezzi leggermente più alti dovuti alla migliore qualità della merce) anche in south kensington, notting hill, chelsea.
da fuori non sono mai particolarmente attraenti o glamour, ma non serve di certo: si tratta di realtà sempre molto radicate nel quartiere, e chi ci va, per donare o comprare o entrambi, lo fa regolarmente, come abitudine; non è un caso che ai cambi di stagione i negozi strabuzzino più del solito di scatoloni di cartone. gli interni sanno spesso di soffitte impolverate, di armadio della nonna, di quegli odori che non sono né buoni né cattivi, ma appartegono al background memo-olfattivo di ognuno, e pertanto suscitano, in senso etimologico, simpatia.
dentro si trova veramente di tutto: dal candelabro baroccone al libro di cucina francese, dalle giacche di daks alle camicie di pink, dai 33 giri dei police al cofanetto di tutte le stagioni di friends. alcuni di questi hanno sezioni specificamente dedicate: il vintage vero e proprio, il capo di marca, molti di questi hanno pure l’ardire di proporre seasonal sales, i saldi di stagione. è risaputo che la filosofia charity è indissolubilmente legata al gene anglosassone, ma c’è dell’altro: il fascino dell’acquisto second hand, il possedere un oggetto (sia esso un libro, una cintura, un vestito) che ha una storia, che ha fatto parte di più esistenze.
ma non è tutto: qui a londra, vip e charity appartengono indissolubilmente allo stesso circolo virtuoso: i vip sono allo stesso tempo clienti e donatori…kylie minogue, keira knightley, victoria beckham pare che siano clienti abituali. l’architettessa naturalmente ha sviluppato una mania ossessivo compulsiva per i charity, amorevolmente fomentata dalla dolce metà, oserei dire quasi più ehm…incline di me a tozzolare alla ricerca dell’affare, o anche solo a tozzolare per il gusto di farlo; questi shops sono gonfi di umanità, di esistenze vissute che saltano fuori, come il genio della lampada, da una dedica su un libro, il bordo sbrecciato di una tazzina, un rammendo nascosto in un cappotto.
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